Domani è il Giorno della Memoria e credo sia giusto contribuire a mantenere vivo il ricordo di ciò che è stata la Shoah, anche se a volte istintivamente si preferirebbe rimuovere certi orrori. E' difficile parlare di questi temi senza essere retorica o usare frasi fatte; ci proverò.
Sono sempre stata una lettrice appassionata e tra i miei temi ricorrenti ci sono storie e biografie di persone che hanno vissuto la discriminazione razziale e l'Olocausto. E' un argomento che istintivamente mi ha sempre trovata empatica. Forse non posso accettare completamente quello di cui è capace la malvagità umana, o forse dopo tutto è consolatorio vedere che, osservando la storia settant'anni dopo, la vita è stata più forte del male. Un male che fa ancora paura perchè è nato nell'uomo ed è diventato un'ideologia.
Lasciando scorrere questi pensieri mi sono ricordata di un libro delicato e forte allo stesso tempo che ho letto la scorsa estate, e che parla della vita quotidiana di una comunità un po' strampalata di sopravvissuti all'internamento che vive in un quariere popolare di Tel Aviv. Si intitola "Giornate Tranquille" di Lizzie Doron, editrice La Giuntina. E' stata una lettura tutta di un fiato, una di quelle che quando arrivi alla fine senti un angolino di vuoto e di nostalgia, come se avessi detto addio a degli amici.
Ogni anno al Salone del Libro visito lo stand della Giuntina, casa editrice dedicata alla storia e cultura ebraica, e mi faccio consigliare qualche romanzo, che non mi delude mai. Da sola non avrei mai scelto "Giornate tranquille" per via della copertina che trovo un po' kitsch; e per fortuna che a volte si chiede ai librai invece di basarsi sull'impatto della copertina!
Giornate tranquille ruota intorno ad un salone di parrucchiere e manicure in cui si incontra la quotidianità di un'umanità sofferente che si è lasciata faticosamente alle spalle l'Europa e gli orrori dei campi di concentramento. Nessuno parla mai di cosa ha vissuto ma lo si deduce da brevi accenni. E' probabile che nessuno abbia le parole per descrivere ciò che ha provato, ma il loro vissuto trapela da tanti gesti e abitudini: c'è il parrucchiere che tenta invano di cancellare il numero blu tatuato sul braccio ad Auschwitz, la donna che non sopporta la manicure perchè i nazisti le avevano strappato le unghie, quella che spera solo di morire per ritrovare il suo cavallo, ucciso dai tedeschi quando era bambina, quella che si aggira per le strade allucinata raccontando qualche orribile verità al suo cane Rexy.
La protagonista è Lea, a cui il nazismo ha tolto l'identità e che vive con un senso di eterno smarrimento. Gli unici ricordi che ha della sua infanzia sono di avere vissuto per anni in una buca del terreno da cui una donna, probabilmente polacca, la faceva uscire ogni notte per rifocillarla e in cambio farle pulire l'aia. Si deduce che i genitori la avessero nascosta presso questa donna per salvarla dalla deportazione. A fine guerra sarà portata in Israele da un funzionario che rintracciava gli orfani ebrei e vivrà in un kibbuz, sempre sentendosi estranea e incapace di provare sentimenti. Sposerà un marito più vecchio e avrà un figlio, sentendosi finalmente di appartenere a qualcuno, ma presto rimarrà vedova. Sarà Zaytshik, il parrucchiere legato al marito da un rapporto fraterno nato ad Auschwitz, a prenderla per mano e a creare per lei il lavoro di manicure nel suo negozio. Gli anni passano veoci nella quodianità del negozio e in Lea nasce un amore profondo e segreto per Zaytshik, tanto che la
sua morte la precipita in un abisso di disperazione, da cui solo la
condivisione del dolore con le sue affezionate clienti potrà salvarla.
Se non avete già abbandonato la lettura di queste righe impregnate di tanta tristezza e cupezza, starete pensando che non leggerete mai questo libro. Vorrei farvi cambiare idea perchè la sua magia, che temo di non essere capace a trasmettere, è nella delicatezza con cui tutto è descritto, e nella dignità dolorosa con cui procede la vita di queste persone. La vita e la ricerca della serenità sembrano prevalere sempre, ma la mancanza di un'identità e delle radici, che i nazisti hanno tolto a Lea, può far sentire le persone vive solo a metà
Forse hai ragione Manuela, non leggerò il libro, ma il post l'ho letto fino in fondo e tutto d'un fiato! La storia la conosciamo bene, non servono i dettagli. La quotidianità del disagio invece {che poi è quello che resta da ogni atroce esperienza} è la parte importante da raccontare. Credo valga per ogni tipo di esperienza di "morte interiore".
RispondiEliminaSebbene intriso di un alone di tristezza, il tuo post mi è piaciuto molto!
Ci vediamo in classe ;-) tra qualche ora!! {ansia}
Cecilia K
Grazie, Cecilia, mi hai aiutato a chiarire quello che volevo trasmettere con il post, il senso di morte interiore, che secondo me è descritto con molta abilità e sensibilità nel post. Ci vediamo presto in aula...che impazienza di cominciare!!
RispondiEliminadescritto con abilità nel libro dall'autrice, volevo dire!
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